Mai come in questo periodo di crisi, messa a dura prova dalla pandemia del Covid-19 e dalle sue ripercussioni economiche e sociali, l’Italia ha bisogno di un chiaro indirizzo strategico. Non solo per gestire l’emergenza presente in tutte le sue sfaccettature, ma anche per (ri)pensare il proprio futuro nel medio e lungo periodo. Per fare questo, avere una direttrice e alcuni punti fermi nella propria politica estera (la pre-condizione è quella di avere una politica estera, ovvero di essere in grado di articolare i propri interessi nazionali e di perseguirli mettendo in campo strategie, strumenti e politiche adeguati) è un elemento imprescindibile al fine di evitare di non agire o peggio di agire in maniera incoerente. La politica estera è un tassello importantissimo per definire l’identità, la credibilità e la sostenibilità di un Paese, a maggior ragione di un Paese come l’Italia che, per collocazione geografica, storia ed elementi strutturali e contingenti del proprio policymaking, è tutto fuorché in una condizione di isolamento o autarchia.
Nel mondo complesso e interconnesso di oggi, politica interna (politica finanziaria ed economica, di sicurezza e difesa, politica ambientale ed energetica, della mobilità e dello sviluppo) e politica estera rappresentano sempre due facce della stessa medaglia. Le sfide che dobbiamo affrontare hanno sempre una dimensione, una ricaduta e, molto spesso, una soluzione che travalica i confini nazionali e ci proietta verso l’esterno. L’esempio della pandemia è emblematico, così come pure quello delle azioni messe in campo per contrastarla. Inoltre, in un mondo in costante e veloce evoluzione è importante guardare al presente con l’occhio vigile di chi sa cogliere in esso i segni di un futuro che va, per quanto possibile, anticipato, compreso e gestito ancora prima che esso si manifesti. In questo senso, ancora una volta, pur nella sua imprevedibilità e nel suo essere un evento Cigno Nero, il Covid-19 ci ha insegnato a guardare avanti, a spingere il nostro orizzonte oltre i confini angusti del presente per pensare, pianificare e costruire il futuro della lotta alla pandemia.
La politica estera è dunque quell’insieme di azioni che ci permettono di agire su queste interconnessioni – interno ed esterno, da una parte, e presente e futuro, dall’altra – e un elemento fondamentale dell’indirizzo strategico del Paese. Al fine di rafforzarla, occorre darle una chiara direttrice rintracciabile nella capacità di fare sponda, ovvero di ricercare tutte le occasioni per agire insieme in maniera reciprocamente compatibile e nel rispetto di regole condivise. In termini politici questa direttrice si riassume nel multilateralismo, che nasce dalla consapevolezza di non poter fare da soli, dalla convenienza di condividere il peso con altri Paesi, per esempio all’interno di istituzioni sovranazionali o intergovernative con una chiara distribuzione dei compiti e degli oneri, e, infine, dal senso di responsabilità di poter dare il proprio contributo nella definizione e nella ricerca del ‘bene comune’. Questa direttrice va poi declinata in maniera più specifica nei vari campi di azione – tematici e geografici – in cui si è tradizionalmente articolata la politica estera dell’Italia. Essi devono essere ripensati e riattualizzati per ricostruire le basi solide della nostra azione e percezione esterna.
- Unione Europea. La principale sponda su cui l’Italia può contare e alla quale contemporaneamente essa deve contribuire, rafforzandola, è l’Unione Europea. Essa è un progetto, ancora prima che una serie di istituzioni e di politiche, complesso e per certi versi incompleto e disfunzionale. In altre parole, assolutamente perfettibile. Ma esso trae la propria forza dal fatto che l’interdipendenza europea è un fatto, non un punto di vista, ed essa precede l’integrazione europea, ovvero i vari passaggi istituzionali che sono stati fatti – sulla base di accordi tra gli stati – per gestire tale interdipendenza. L’interdipendenza è un vincolo ma anche un’opportunità per affrontare sfide che da soli non saremmo in grado di risolvere. Al fine di cogliere questa opportunità occorre uscire dalla logica nazionalista/indipendentista e fare del rafforzamento dell’integrazione europea un pilastro della politica estera dell’Italia, non per tradizione o scontata retorica, bensì con convinzione, senso del dovere e nel chiaro perseguimento dell’interesse nazionale. In quest’ottica, il piano Next Generation EU è la dimostrazione che solo insieme si possono affrontare sfide esistenziali come la pandemia in modo efficace. Nessun Paese da solo avrebbe potuto mettere in campo una risposta così forte senza il sostegno dell’Europa. Ma la forza dell’Europa è data dalla forza dei suoi stati membri e in questo frangente l’Italia deve dimostrarsi all’altezza della sfida utilizzando in maniera responsabile i fondi che le verranno messi a disposizione. Soltanto in questo modo essa potrà agire concretamente per il rafforzamento dell’Unione Europea e in ultima istanza per garantire la propria resilienza. Su altre questioni, ugualmente importanti per il nostro Paese, quale quella della migrazione e dell’asilo, è opportuno che l’Italia continui a far sentire la propria voce e ad avanzare proposte concrete su cosa devono fare gli stati membri e cosa deve fare l’Unione Europea, in un’ottica di co-responsabilità e co-gestione.
- Rapporti transatlantici. Ripensare la politica estera dell’Italia oggi significa riconoscere che le nostre relazioni, o meglio quelle di tutta l’Europa, con il partner americano sono potenzialmente a un giro di boa. Dopo i quattro anni difficili e caratterizzati dall’incertezza dell’amministrazione Trump, i Paesi europei e tra essi l’Italia, che ha storicamente fatto della relazione con gli Stati Uniti, anche quando si trattava di prenderne le distanze rispettosamente, un elemento di forza della propria proiezione esterna, possono tirare un sospiro di sollievo. Dalle politiche commerciali alla lotta al cambiamento climatico, dall’impegno nei teatri di conflitto alla NATO, dalla promozione del multilateralismo e del diritto internazionale alla gestione dei rapporti con la Cina, l’amministrazione Biden presenterà differenze significative rispetto alla precedente e sicuramente fornirà agli europei una sponda solida per rinsaldare i rapporti transatlantici che avevano vacillato sotto Trump. Nonostante ciò, questa opportunità e questa sponda devono essere sfruttate in maniera oculata dagli europei, italiani compresi, senza nutrire la facile illusione di un ritorno al passato o a una storia che si ripete. Gli Stati Uniti emersi dalle recenti elezioni si sono mostrati epifanicamente con un volto nuovo, non solo alla luce del fatto che una larga fetta della popolazione ha votato per Trump ma soprattutto perché i mali profondi del Paese si chiamano oggi polarizzazione politica, disagio sociale e disuguaglianze, cosa che ha gettato un’ombra sulla sostenibilità democratica del nostro alleato d’oltreoceano. Alla luce di ciò, gli europei devono fare la propria parte, secondo l’adagio “it takes two to tango”. Occorre iniziare, o meglio riprendere, il percorso per raggiungere una maggiore autonomia strategica, ovvero la capacità di dare il nostro contributo in maniera autonoma e capace nella gestione di dossier di politica estera e sicurezza, inclusa la dimensione della difesa, sui quali non possiamo più permetterci il lusso di aspettare l’intervento proattivo e risolutivo degli Stati Uniti. Occorre incanalare nuove energie e nuove risorse in questa direzione, nonostante la tendenza naturale potrebbe essere quella di un ripiegamento introverso su noi stessi, cullandoci nell’illusione che l’obiettivo possa essere ulteriormente rimandato. Se l’amministrazione Biden saprà farci da sponda su questo, come già Obama aveva spinto in maniera decisa per una maggiore integrazione europea, dipenderà tutto da quali passi sapremo fare, autonomamente, nel breve e medio termine. Dopotutto, le amministrazioni a Washington vanno e vengono.
- Mediterraneo e Medio Oriente. Parlando di autonomia strategica a volte risulta complicato comprese a cosa ci si riferisca esattamente. La cosa, tuttavia, diventa chiara e limpida se si prende in considerazione il teatro geopolitico che costituisce da tradizione il terzo pilastro della politica estera dell’Italia (e per estensione dell’Europa nel suo complesso): il Mediterraneo e il Medio Oriente. Mai come in questo frangente è importante che l’Italia riscopra il proprio ruolo centrale, non per malcelate ambizioni di supremazia intra-europea o per meri interessi commerciali o monetari ma per i legami profondi che ci uniscono a quest’area, alla luce delle sfide e delle opportunità che ne derivano e in considerazione del fatto che essa rappresenta la nostra primaria e naturale sponda. Dunque, autonomia strategica significa giocare un ruolo autonomo e proattivo fatto di azioni concrete, ben pianificate e coerenti con le nostre possibilità e i nostri interessi nazionali più ampi, da cui la dimensione strategica (si veda la centralità del Nord Africa per ragioni di prossimità geografica e socio-culturale, approvvigionamento energetico, rapporti commerciali, migrazioni e mobilità). Non significa invece, quando rapportato alla politica estera del nostro Paese, agire in competizione o in maniera reciprocamente incompatibile con le posizioni e le politiche dei nostri partner europei o degli altri attori multilaterali con i quali o nell’ambito dei quali ci troviamo a condividere l’onere e la responsabilità di contribuire al futuro di questa regione. Il primo test dell’autonomia strategica concreta, al di là dei proclami e delle discussioni teoriche, dell’Unione Europea dovrebbe essere la capacità di articolare una strategia coesa e coerente per affrontare le crisi e la conflittualità multipolare che permea la regione agendo da stabilizzatore esterno attraverso incentivi al dialogo, alla de-escalation e alle misure di confidence building. Dai conflitti più vicini a noi, in primis quello libico ma anche quello siriano, e le crisi prossime come quella libanese o come il groviglio della matassa del Mediterraneo orientale, alle ripercussioni dell’instabilità, del ricorso alla violenza e delle situazioni di povertà e di crisi umanitaria in Africa (come non menzionare la crisi etiope), l’Italia dovrebbe mettere la propria azione in politica estera, le proprie risorse e la propria diplomazia laddove può, all’interno del quadro multilaterale europeo o attraverso una forma di autonomia cooperativa, fare la differenza.