Patrimonio culturale
La cultura è la base epistemologica dei processi di cambiamento sociale, non ne è l’epifenomeno.
Non è dunque possibile immaginare un progetto di sostenibilità senza contemplarne le visione culturale sottostante, gli obbiettivi primari dell’auspicato processo di cambiamento.
Immaginare di poter parlare di cultura dunque, rispetto alle politiche di sviluppo di un paese o di un suo territorio, solo in termini di Beni Culturali e/o di iniziative culturali è palesemente errato e metodologicamente fallimentare.
La visione rispetto al progetto culturale di un territorio, la modalità con cui s’intende relazionale tale visione ad altri aspetti determinanti quali il turismo, la coesione sociale, l’impatto economico e l’employability sono preliminari a qualsivoglia speculazione in merito alla modalità di gestione dei siti, alla messa a sistema ed alla progettazione culturale.
Viviamo in un mondo fortemente connesso e subordinato alla comunicazione, e dunque qualunque strategia che voglia essere vincente e competitiva in questo contesto globale non può prescindere dalla costruzione di una narrazione innovativa sul territorio, e questa non può che essere definita attraverso una chiara visione culturale.
Con il testo unico dei Beni Culturali del 1991 si delinearono i principi che stanno ancora alla base della politica delle Sovrintendenze in Italia, sorte sin dai primi anni del XX secolo. Tutela, fruizione e valorizzazione divennero gli argomenti cardine, anche se, tuttavia, nei decenni successivi l’orientamento è stato maggiormente a vantaggio della tutela, trascurando, talvolta, la fruizione e la valorizzazione del patrimonio storico artistico. Purtroppo la comunità scientifica e accademica italiana si è trovata spesso in difficoltà nel dialogare con i propri omologhi in altri paesi soprattutto in merito alla fruizione del nostro patrimonio artistico, che, come è noto, spicca a livello internazionale.
Per affrontare il problema dovremmo fare un passo indietro, agli anni Ottanta, quando si assiste all’insorgere di un progressivo atteggiamento di indifferenza nei confronti del patrimonio artistico, in controtendenza agli altri paesi europei, manifestato in primis dalla diminuzione graduale delle ore di insegnamento nelle scuole della storia dell’arte, oggi disciplina pressoché dimenticata. Processo paradossale nel paese con la maggior concentrazione di beni culturali al mondo, dove, oggi, intere generazioni, di fatto non hanno alcuna consapevolezza del “contenitore” nel quale sono cresciute e nel quale vivono la propria quotidianità. L’assenza di conoscenza sta alla base della poca affluenza da parte del popolo italiano sui siti storici. Non a caso il maggior introito dei beni culturali proviene dal turismo straniero.
I nostri siti, benché i più ricchi di opere d’Europa, non ricevono un numero adeguato di visitatori rispetto ai beni che contengono, esposti, spesso in contenitori di non pari pregio. Se da un lato le istituzioni, di ieri e di oggi, non hanno contribuito alla creazione di una coscienza nel cittadino del valore intrinseco del patrimonio, dall’altro non hanno investito, come è accaduto negli
altri paesi europei, nelle strategie di marketing e di comunicazione del patrimonio stesso.
Il presente dei beni culturali in Europa è ormai impostato nell’ottica di una continua adesione a qualsiasi iniziativa di messa in rete, sia di siti pubblici che
privati. In Italia, ad oggi, oltre due terzi dei musei italiani non sono in rete. I musei, le dimore storiche, le case museo, i siti archeologici ancora non dialogano fra loro, ma, cosa ancor più grave, non offrono al visitatore percorsi di valorizzazione congiunti, al fine di semplificare una più agevole fruizione.
A queste anacronistiche condizioni di gestione si aggiunge la difficoltà di impostare un dialogo tra istituzioni culturali pubbliche e il privato, spesso relegato alla gestione dei servizi aggiuntivi, in Europa, concepiti tutt’altro che “periferia” rispetto all’esposizione delle opere. Da decenni il sistema anglosassone, per esempio, ha puntato sui servizi aggiuntivi (caffetterie, ristoranti, bookshop) da un lato investendo ingenti somme e dall’altro avendone un enorme ritorno, essendo in realtà anch’essi ragione di visita del museo. Situazione frequente, tra l’altro, proprio in musei pubblici, alcuni dei quali totalmente gratuiti. La società cambia e le istituzioni devono seguire questi cambiamenti per attirare il maggior numero possibile di fruitori.
D’altronde il concetto intrinseco di Cultura non è altro che vera condivisione e soltanto grazie a un maggiore dialogo fra realtà e istituzioni potremo assistere a una maggiore diffusione della cultura, patrimonio della collettività.
La bellezza del nostro patrimonio artistico pertanto può e deve attrarre investimenti privati. Per molte aziende affiancare il proprio brand a quello di un sito culturale, sia la sponsorizzazione di una mostra o dei lavori di restauro di un sito, è un investimento che ritorna in visibilità, affidabilità e garanzia di bellezza. Ben vengano questi investimenti che infatti andrebbero ricercati e non, come è talvolta successo in Italia, rifiutati con inutili polemiche.
Ben vengano restauri e sponsorizzazioni private, naturalmente sotto il controllo e il perimetro delineato dal pubblico. E per generare tali investimenti, vanno create facilitazioni fiscali ad hoc. E a coloro che al suono dei soldi privati gridano allo scandalo, pensiamo a come si mantengono e infatti fioriscono le più importanti istituzioni museali e culturali in Nord Europa e negli Stati Uniti. O senza andare troppo lontano da casa nostra, guardino alla nostra storia, leggendo qualcosa sul nostro Rinascimento.